Venerdì 21 luglio alle 18 si è tenuta nella (afosa) sala ex pescheria la seconda conferenza organizzata dal Circolo culturale ARCI 2 giugno 1946 nell’ambito della Settimana dei diritti umani. L’iniziativa era inserita nel progetto ABC – Armonia, Benessere e Condivisione, finanziato dalla regione del Veneto con fondi del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali.
Dopo la presentazione di Andrea Tincani, a nome del Circolo culturale ARCI 2 giugno 1946, sono intervenuti Guido Pietropoli, garante provinciale dei detenuti, e Ciro Grandi, professore di Diritto penale presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara e referente per la sede di Rovigo.
Un dibattito di altissimo livello, accompagnato dall’interesse del folto pubblico presente, nonostante le condizioni climatiche certamente non favorevoli.
Dell’intervento di Guido Pietropoli, che è anche componente del Direttivo del Circolo culturale ARCI 2 giugno 1946, riportiamo di seguito il testo integrale.
“Ho pensato che l’intervento del Prof. Avv. Grandi può avere maggior risalto – al di là delle indubbie capacità del docente – se inserito all’interno di un quadro di riferimenti con la realtà carceraria rodigina.
Quanto dirò è un semplice inquadramento generale redatto da una persona che non ha particolare dimestichezza con il versante giuridico della legislazione italiana – infatti la mia laurea è in architettura – ma da quattro anni frequento regolarmente la Casa Circondariale di Rovigo e, in particolare, intrattengo colloqui settimanali sia con i detenuti e con il personale amministrativo e di custodia in qualità di Garante cittadino delle persone private della libertà.
Ho parlato di casa circondariale e non di carcere “tout court” perché le due parole attengono realtà significativamente diverse: la casa circondariale è una struttura che è destinata a detenuti condannati per reati minori e puniti con condanne fino a 5 anni; il che comporta l’obbligo di lavorare secondo le proprie attitudini o svolgendo lavori diversi nell’arco di quelli che il carcere prospetta al suo interno.
La reclusione in un carcere – al contrario – prevede la privazione della libertà a tempo determinato a causa della commissione di un delitto e la pena può estendersi in un arco temporale che va da 15 giorni a ventiquattro anni che devono essere scontati in questa particolare struttura.
La parola “carcere” viene utilizzata normalmente per indicare il luogo di custodia dei condannati o di coloro che subiranno un processo.
È un termine “ombrello” che racchiude in sé diversi tipi di istituti da quello della custodia preventiva a quello per l’esecuzione della pena o ancora per l’esecuzione delle misure di sicurezza.
La casa circondariale e la casa di reclusione non sono le sole strutture delegate ai compiti di custodia di detenuti o di persone in attesa di giudizio.
Esistono anche:
– La casa mandamentale in cui sono detenute persone in attesa di giudizio con accuse per reati lievi oppure condannate a pene fino a un anno, come l’arresto. Questi istituti sono quasi tutti dismessi.
– Il carcere speciale che è la struttura preposta alla detenzione dei condannati per delitti di criminalità organizzata, ad esempio reati di mafia.
– Il carcere minorile è per i minori che commettono reati.
Se cercate in internet il tema carcerario vi imbatterete immediatamente in giudizi di questo tipo:
“ In Italia la maggior parte delle carceri sono luoghi infernali, sovraffollati, degradati e dove i detenuti trascorrono la giornata senza poter fare nulla se non far passare il tempo”.
L’associazione Antigone ha censito negli ultimi dodici mesi oltre 3.000 detenuti in sovraffollamento rispetto alla capienza massima ammessa in alcuni istituti in cui il tasso di sovraffollamento arriva al 113,2 %.
La popolazione carceraria è attestata attorno alle 57.000 unità; tutto questo con riferimento alle oltre 200 carceri italiane.
Come si colloca Rovigo nel panorama nazionale?
Innanzitutto la struttura di Rovigo non è un carcere bensì una casa circondariale.
Come come succede spesso in Italia è una strana struttura metà casa circondariale e metà carcere anche se non dovrebbe/potrebbe essere così… ma di questo argomento tratterò in seguito.
In Italia esistono gironi danteschi e carceri a quattro stelle per quanto attiene la “sistemazione” dei detenuti: tra le carceri dantesche è voce comune che si possono annoverare gli istituti di Aversa, dell’Ucciardone a Palermo, di Piazza delle Lanze a Catania, il carcere di Santa Maria Capua Vetere e altri.
Relativamente alle carceri per i VIP sembra spicchi quello di Orvieto sia per le sistemazioni logistiche che per le attività tese al recupero dei detenuti.
Sul versante delle carceri modello quello più famoso è certamente Bollate che vanta un ventaglio di attività lavorative e formative davvero insolito e pertanto da premiare.
In generale il merito per guadagnare la qualifica di carcere modello oppure quello di un luogo definito “girone dantesco” non va ascritto al Santo Stato che, seppure è in cielo, in terra e in ogni luogo, non agisce fattivamente in alcun luogo, quanto piuttosto alla direzione dell’istituto e ai suoi settori funzionali nei quali queste strutture hanno voluto o meno imboccare la strada dell’attenzione all’umanità dei costretti; questa particolare attenzione si può definire molto semplicemente: “valutazione sensibile delle caratteristiche umane del detenuto e cura attenta del suo percorso formativo all’interno della struttura carceraria”.
L’azione della Direzione di un carcere impronta l’organizzazione della vita quotidiana e di quella corrente attraverso molteplici azioni. Un direttore è una sorta di autista che dirige la vettura verso le mete del suo progetto d’istituto che è, sempre, un progetto particolare e, come tale presuppone una conoscenza profonda della struttura da governare.
Vi fidereste di un autista che è stato catapultato temporaneamente in una realtà a lui sconosciuta?
Uno dei cinque direttori che sono passati a Rovigo nei miei quattro anni di Garante mi ha detto : è facile gestire un carcere attraverso « la selezione dei soggetti presenti in certe carceri modello…là dove sono ammessi solo detenuti biondi e con gli occhi azzurri « . Questa fu la risposta del funzionario, come dire che è facile ottenere risultati strabilianti selezionando solo soggetti particolari, fortemente motivati e molto ragionevoli.
La precisazione ha qualche verità dato che l’ingresso a Bollate non avviene automaticamente bensí dopo un vaglio del curriculum dei soggetti.
Parimenti, visti i modesti o fallimentari risultati di molti istituti carcerari, sono del
parere che lo stesso vaglio accurato – non necessariamente quello dei capelli biondi e degli occhi azzurri – dovrebbe essere applicato ai direttori e al personale che svolge funzioni formative all’interno dei nostri istituti.
Sono solito ripetere che se il carcere fosse una struttura con compiti produttivi quali quelli di restituire alla società “persone aggiustate” questa struttura dovrebbe immediatamente chiudere per fallimento.
Mi spiego meglio: un’industria che si vede rispedire il 70/80 % del suo prodotto – tali sono le percentuali della recidiva – non ha alcuna giustificazione di carattere etico e sociale né tanto meno economica.
Tempo fa sono intervenuto sui giornali con una nota dal titolo “Quanti ne aggiustiamo?” ma non ebbi risposta alcuna dato che l’istituzione non gradisce che venga discussa la ragione o meno della propria esistenza.
Vero è che la macchina della giustizia in Italia muove interessi colossali e riguarda quantità ingenti di lavoratori.
Si sarebbe potuto rispondere: “noi abbiamo assolto il compito di tenere lontani dal
consesso civile soggetti che si sono macchiati di delitti contro la società, alcuni dei quali efferatissimi…ma è noto che questa risposta darebbe soddisfazione solo a coloro che vanno continuamente affermando: “chiudeteli dentro e poi gettate le chiavi”.
Questi personaggi “ manettari” poco sanno – o cercano di dimenticare – che l’allontanamento dal consesso civile di un soggetto colpevole è solo la metà – e certamente la più semplice a cui dare corso – dell’articolo 27 della Costituzione Italiana (L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannati. Non è ammessa la pena di morte).
Questo articolo impone che la pena sia finalizzata al reinserimento nella società di persone che devono essere restituite al consesso civile migliori di prima, persone che non si dovrebbero fregiare, in uscita dal carcere, di master conseguiti attraverso la convivenza quotidiana con delinquenti efferati.
Mi è capitato di constatare che questa attitudine a “ chiuderli dentro e buttare le chiavi” non è solo una caratteristica del politico populista che cerca di rubare voti ai “benpensanti” ma appartiene anche a certi magistrati che in qualche occasione si sono espressi con frasi di questo tipo : “ abbiamo impiegato sforzi e fatica per riuscire a rinchiudere in prigione questi delinquenti e non vogliamo perdere tempo per alleviare la loro vita ..” o un altro magistrato che ha dichiarato – con una certa supponenza – di non apprezzare l’azione dei volontari e soprattutto quella dei garanti perché si tratterebbe di soggetti inutili e velleitari.
Al che mi sono permesso di obiettare che il Garante cittadino è una figura istituzionale, nominata dal Sindaco e, come tale, rappresenta l’attenzione della comunità per soggetti che temporaneamente abitano nel nostro territorio, una sorta di ragionevole attenzione per gli ospiti che soggiornano a casa nostra.
Mi sembrava il minimo che si potesse rispondere ma il magistrato precisò il suo pensiero affermando che la casa circondariale di Rovigo non fa parte del territorio urbano bensì è territorio dello Stato Italiano. A questa precisazione stupefacente mi sembrò non opportuno replicare e mi allontanai abbastanza sconfortato perché la controparte si era dichiarata apertamente come l’unica in possesso delle verità superiori e ultime.
Ritorno sulla tassonomia degli istituti carcerari per parlare brevemente della struttura rodigina: non è certamente Santa Maria Capua Vetere o l’Ucciardone dato che la struttura edilizia è stata realizzata in tempi recenti e inaugurata tre lustri addietro.
Le condizioni « abitative » sono certamente civili e lo stesso si può dire del comportamento a tutti i livelli del personale di custodia e amministrativo. Non esiste a Rovigo sovraffollamento e il poter disporre di un “vestito largo” – cioè di locali in leggero esubero rispetto alle necessità quotidiane – ha permesso di superare il periodo della pandemia perché sono stati reperiti facilmente gli spazi per la segregazione dei detenuti colpiti dall’infezione.
Il migliore mondo possibile? Un carcere a cinque stelle nel quale, dovendo scontare una pena, tutti vorrebbero essere reclusi?
Direi proprio di no, non tanto perché Rovigo non ė Bollate con i detenuti con gli occhi azzurri e i capelli biondi quanto piuttosto perché la seconda funzione che è assegnata al carcere e cioè quella del reinserimento dei detenuti è per me la più importante e a Rovigo non è sviluppata adeguatamente.
Mi riferisco al compito rieducativo al quale io dò grande rilevanza. I detenuti in gran parte provengono da altre carceri italiane e per questo fanno ragionevoli raffronti sulle attività educative/formative che trovano a Rovigo. Il loro giudizio è spesso circostanziato e puntuale: a Belluno c’era questa attività e ad Arezzo quest’altra che qui non trovo…
La vita del carcere è un’esistenza sospesa tra la convivenza coatta e spesso non desiderata e un tempo che crudelmente si allunga in ragione della inattività alla quale i detenuti sono condannati.
Ė difficile immaginare che un soggetto possa uscire migliore di com’era quando è
entrato e sono molte le probabilità che egli ne esca peggiore e con molti rancori nei riguardi di una società che gli ha rubato inutilmente anni di vita.
L’azione formativa e pedagogica della struttura è spesso ridotta al “minimo ministeriale” e a questo proposito un direttore al quale chiedevo copia del programma d’istituto e al quale facevo notare che a fianco degli obiettivi generali il carcere avrebbe dovuto indicare a consuntivo i goal raggiunti mi rispose candidamente: “ Garante, le verifiche annuali le redigiamo noi e di norma indichiamo che tutti gli obiettivi sono stati pienamente raggiunti anche se
spesso non è così…”.
Aggiungo che una struttura che cambia cinque direttori in quattro anni non può garantire una qualche efficienza e questa è la situazione della Casa Circondariale di Rovigo nella quale due direttori non si sono fermati più di un paio di mesi e gli ultimi due, compreso l’attuale direttore sono “a scavalco da altre sedi” per carenza cronica di personale adeguato.
Quale può essere la qualità di una struttura di questa importanza se deve fare conto su una “testa” temporanea e “a mezzo servizio”?
Ma ancora, in visita alla casa circondariale di Rovigo ci si aspetterebbe d’incontrare solo detenuti comuni con pene lievi e/o in attesa di giudizio. Non è cosī dato che la metà dei detenuti di Rovigo – circa 100 su duecento unità complessive sono di massima sicurezza cioè ristretti in carcere per reati gravissimi: omicidi, reati di mafia ecc.
La classificazione della struttura rodigina non consentirebbe la compresenza di questo tipo di ospiti; basta un solo esempio: dato che le due tipologie di carcerati non possono assolutamente comunicare tra loro, un carcere dovrebbe essere dotato di servizi doppi ad esempio due cucine indipendenti ma questa regola non è rispettata a Rovigo sia perché non ci sono le strutture sia perché, in ragione di un modesto risparmio sugli stipendi del personale, è più conveniente per
lo Stato pagare i dipendenti come se operassero in una semplice casa circondariale.
Questo fatto può giustificare la scarsa appetibilità di Rovigo che non è considerata struttura utile alla carriera di alto burocrate, quando – al contrario – Rovigo potrebbe divenire una “ piccola Bollate” se fosse dotata di direttori e personale motivato anche economicamente.
Gran parte del mio tempo di Garante trascorre in incontri con le guardie, il personale medico e, naturalmente, in colloqui con i detenuti.
È evidente che ciascun gruppo tende a raccontare la sua versione di come si svolge la vita quotidiana; tutto bene? Certamente tutto bene! È la risposta normale… e di nessuna utilità.
I detenuti raramente lamentano malfunzionamenti o soprusi; non hanno contezza della funzione del Garante e, dato che lo vedono come un’entità esterna, raramente testimoniano dei fatti subiti; la sincerità in carcere è asimmetrica perché chi si esprime sinceramente teme ritorsioni essendo parte non protetta.
In rari casi – l’ultimo episodio mi fu raccontato da un detenuto liberato una settimana dopo – sono venuto a conoscenza di maltrattamenti ma alla denuncia non seguì nulla perché una volta libero il soggetto non si fece più vivo e pensò bene di lasciarsi il fattaccio subito alle spalle.
Un altro caso davvero tragico riguarda il suicidio di un detenuto il cui corpo fu portato all’ospedale civile per l’autopsia di legge. Una guardia mi testimoniò lo strazio dei parenti che videro aprire il bodybag che conteneva la salma orrendamente sezionata e ricucita approssimativamente .
Intervenni presso la Direttrice – per altro il funzionario più coscienzioso che abbia incontrato in questi quattro anni – chiedendo come mai il carcere non aveva messo in atto normali procedure di “pietas” che si usano anche per i soggetti più umili.
La direttrice mi rispose che una volta uscita dal carcere la salma non era più di competenza dell’istituto…poi arrossì.
La funzione del Garante non è nota ai più: io posso entrare in carcere a qualsiasi ora del giorno e della notte e parlare con qualsiasi persona.
Spesso sono una presenza non gradita ma anche è giusto che io dia testimonianza di comportamenti estremamente rispettosi ed educati da parte del personale della casa circondariale.
La presenza “poco presente” di una direzione effettiva produce un effetto di “morta gora” in cui non succede nulla di tragico ma nemmeno succede qualcosa di positivo.
Il tempo è senza tempo, alla richiesta di un aiuto o alla manifestazione di un disagio segue l’indicazione :“ faccia la domandina” come in un asilo infantile.
Qualsiasi richiesta, anche la più semplice, dev’essere vagliata con attenzioni inimmaginabili.
Un detenuto pluriomicida ultra settantenne e molto dotato artisticamente mi chiese un tempera matite di quelli in uso nelle scuole elementari; ho dovuto provvedere un temperamatite con la struttura in plastica perché il piccolo oggetto che avevo comperato era in alluminio e, com’è noto l’alluminio si può fondere e farne aeroplani…
È facile capire da queste brevi note che in carcere il Garante vale come il due di coppe quando si gioca a bastoni…ma io penso che la funzione del Garante – come rappresentante della comunità rodigina – e parimenti quella importantissima delle associazioni di volontariato che operano intra moenia sia indispensabile e non sostituibile per realizzare un raccordo tra la città – checché ne pensi un certo magistrato di sorveglianza – e la vita futura dei detenuti che hanno pagato il loro debito con la giustizia.
Quando si sarà capito che la “fabbrica carcere” deve impegnarsi per restituire nuovi cittadini e non vecchi delinquenti si sarà fatto un grande passo in avanti e questa struttura dolente potrà passare dall’essere considerata una sorta di zoo – com’è vista dalla gran parte dell’opinione pubblica – a una “normale” istituzione per dimettere cittadini nuovi e rieducati.
Arch. Guido Pietropoli