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Zahra Ahmadi: «Non dimenticate le altre donne rimaste in Afghanistan»

Anche lei è scappata: «Non conoscevo cosa significasse avere la paura, finché ho avuto quella brutta sensazione di avere i Talebani alle porte di Kabul. Ho sùbito scritto a mio fratello. In quella fase non si trattava di avere o fare una scelta. Avevo un sogno per me e ancora più grande per il mio Paese. Non potevo immaginare che tutto potesse finire così, obbligandomi a seguire le nuove
terribili restrizioni imposte dai Talebani. Dove mi portavano? Alla morte? Cosa mi potevo aspettare? Vivere il resto della mia vita in una gabbia, chiamata casa. Avevo anche un visto per l’India. E mio fratello come alternativa mi aveva procurato due biglietti in due giorni diversi per quel Paese. Solo che i voli civili erano ormai bloccati».

Così Zahra Ahmadi, 32enne, imprenditrice, da anni impegnata da tempo nella difesa dei diritti femminili in Afghanistan, è arrivata in Italia e l’11 settembre, a vent’anni esatti dall’attentato delle Torri Gemelle, è invitata a parlare al Festival della Politica per un incontro dedicato all’Afghanistan e al suo popolo in trappola. Lei non parla inglese né tantomeno italiano, ma suo fratello, Hamed Ahmadi, da tanti anni ormai in Italia, titolare del ristorante* Orient Experience* a Venezia, ci ha aiutati a parlare con Zahra.
Che cosa faceva lei in Afghanistan? Com’era la sua vita«Dopo essermi occupata della riqualificazione dello spazio Le Jardin che purtroppo aveva subìto due attentati terroristici ed era abbandonato, ho fondato lì il mio primo ristorante, Sahar Paz (Sahar è il mio soprannome), che ho cercato di far diventare un punto di riferimento per le donne, cercando così di creare una rete di persone che, come me, desideravano una maggiore emancipazione femminile. Il successo di questo luogo mi ha portato a pensare a un secondo spazio, l’Ospite di Sahar. Ho lavorato per otto mesi intensamente per realizzarlo: era pronto per essere avviato proprio in quei giorni quando ho dovuto dire addio al mio amato Paese».
Come è arrivata in Italia? Chi l’ha aiutata?

«Ha seguito tutto mio fratello, ma ho capito che si è attivata tutta l’Italia per aiutarmi. Dal basso all’alto, da destra a sinistra. Tutta questa collaborazione e questa sinergia per farmi arrivare, all’inizio mi ha dato una grande speranza, una
forza notevole. Purtroppo però ora vedo che stiamo sempre facendo poco per chi è rimasto bloccato in Afghanistan. Io ora sono qui, nel vostro bellissimo Paese, e non è neanche importante come io sia riuscita ad arrivare, quel che conta è che qui sono considerata una persona anche se sono una donna. Ma vi chiedo di non dimenticare tutte le altre donne che sono rimaste là, senza possibilità di uscire».
Che cosa succede a chi non riesce a scappare?

«Purtroppo abbiamo già vissuto per sei anni sotto il regime dei Talebani: l’elenco che si può fare sulla loro brutalità è molto lungo e ormai lo sanno tutti. È vero che ora hanno imparato a parlare bene e ha fare grandi proclami e promettere davanti alle telecamere, ma nei fatti è ben diverso: stanno già contradicendo le loro stesse dichiarazioni. Non ci si può fidare di loro: la miglior prospettiva che si può avere con loro è un futuro grigio, senza speranza. Il resto immaginatelo voi».
E ora che cosa succederà in Afghanistan? Che cosa si aspetta dagli altri Paesi del mondo?

«Un popolo intero è in lacrime, c’è paura e incertezza, soprattutto per la mia generazione che ha imparato a camminare con voi occidentali. Ma adesso ci si sente abbandonati e traditi. Abbiamo ancora tempo, ma non tanto. Bisogna che il mondo, unito, faccia rispettare ai Talebani di approvare un governo di larga coalizione. Un governo che rappresenti tutti di noi. Che garantisca l’emancipazione femminile. Ogni essere umano ha gli stessi diritti e i nostri diritti, anche quelli più basilari, sono ora altamente in rischio».
Quale personaggio politico (o partito, o gruppo, o personaggio) in Afghanistan
potrebbe aiutare a ribaltare la situazione?

«Purtroppo, quest’emergenza con la sua velocità feroce, non ci ha lasciato tante alternative, c’è ancora una zona del Paese che lotta per la resistenza. Il suo leader è Ahmad Masoud (figlio del Comandante Masoud). Non lo conosco bene. So che è una persona accademica e ha studiato a Londra, ha quasi la mia stessa età. Immagino che al momento anche lui si senta abbandonato. Anche perché quando c’era suo padre come comandante, c’era anche un equilibrio fra chi voleva i Talebani e chi no. Questa volta sembra che le grandi potenze mondiali siano a favore dei Talebani. Mi riferisco a quella parte di occidente che ha fatto accordi con loro, i Russi, i Cinesi, il Pakistan, l’Iran, l’Arabia Saudita. Gli altri giocatori in campo purtroppo non contano».
Come immagina la sua vita nel prossimo anno?

«A essere sincera, ancora non riesco ad avere nessuna immagine. Sono talmente coinvolta dai cambiamenti visti e vissuti negli ultimi giorni che non riesco a prefigurarmi nulla in modo chiaro. Quel che so è che continuerò a lottare
per i miei diritti non solo di donna, ma come essere umano. So che ho una missione e avrò tantissimo da fare. Viva la vita, viva L’Italia che mi ha salvata e viva gli esseri umani».
Come si immagina nel 2030 e come immagina il suo Paese?

«Nel 2030 spero che gli Stati e le potenze internazionali ottemperino agli impegni presi nella Agenda 2030 con gli obiettivi di sviluppo sostenibile, soprattutto nel punto 16 per la costruzione di una società pacifica e per lo sviluppo di istituzioni egualitarie in tutti i Paesi a tutela dei diritti civili, umani, del diritto all’istruzione, della parità di genere. Immagino me e le mie colleghe e amiche e tanti altri
intellettuali, artisti, attivisti, giornalisti, ci immagino riprenderci il Paese e lottare per l’autodeterminazione del popolo afgano nelle sue varietà e nella sua ricchezza antica di millenni. Perché questo sia possibile è necessario che tutti noi, compresi i governi dei Paesi europei e le società che ci stanno ospitando oggi come rifugiati supportino e aiutino a crescere questa giovane
classe di Next leaders. Per questo con Culture Italiae e in particolare con lo spin-off Solidarietà Italiae stiamo lanciando il progetto “Afghanistan 2030. Next Leaders” che punta a mettere in salvo e dare un’accoglienza dignitosa a quelli che come me stanno davvero lottando per il futuro del nostro Paese e non vanno abbandonati. Attraverso visti speciali e corridoi umanitari speriamo di
riuscire a continuare il nostro sogno, uniti anche in esilio, continuando a immaginare l’Afghanistan del 2030 come un Paese di pace e diritti, restituito finalmente nelle nostre mani, ai nostri giovani, ai nostri talenti. Il progetto “Afghanistan 2030. Next Leaders” offrirà la possibilità a questi giovani
di continuare a sviluppare i loro talenti, offrendo adeguate opportunità di inserimento, formazione e studio per perseguire i loro ideali».

 

Credits VanityFair Italia

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